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venerdì 3 maggio 2019

ENZO SANTOSTEFANO ( artista)


"Daniela", 1960 terracotta


  I ricordi della figlia Daniela



Mio padre raccontava:
Sono nato a Mazara del Vallo alle ore 22 del 2 ottobre 1907, nella malinconia autunnale, in una vecchia casa che comunicava con la galleria d’arte. I miei genitori vivevano di lavoro: mio padre, bravo ebanista ed intagliatore dirigeva un laboratorio  proprio con un carico di sei dipendenti; mia madre, oltre ai lavori domestici badava alla rivendita di Tabacchi di cui era titolare. Nonostante tutta questa attività , la vita per noi era un po’ stentata. Noi ragazzi andavamo tutti a scuola. Mio padre, lavoratore instancabile e credente uomo politico, militava nel partito socialista ed era convinto che tra tutte le classi sociali, la più onesta era quella degli operai. Credeva fermamente nell’artigianato. Un artigiano, secondo lui, era un blasonato. Terminate le scuole elementari e conseguita la piccola licenza, mio padre ci considerava “dottorati”  e quindi il proseguimento era nel nostro laboratorio.
La mia famiglia era composta da mio padre, mia madre, mio zio Vincenzo (fratello di mio padre) e di cinque figli, io sono il terzogenito.
I primi dolori in famiglia: nel 1918 la piccola Lucrezia si ammala e muore all’età di quattro anni. La ricordo: era bellissima, occhi grandi, capelli biondi, molto dolce; era la più piccola della famiglia. La mamma non trovava consolazione, piangeva la sua piccola Lucrezia; mio padre sopportava l dolore spegnendolo nel silenzio e nel lavoro; noi nella strada o nel laboratorio  facevamo da spettatori , come tutti i ragazzi in queste circostanze. Nel 1929 muore mio fratello Andrea, secondogenito, per una infezione generale al sangue. Aveva 23 anni e per me fu un colpo durissimo. Poi morirono i miei genitori: mio padre nel 1957 e mia madre nel 1958. Mia sorella Antonia è morta nel 1975. Oggi le persona vive della mia famiglia siamo due: mio fratello Battista, primogenito, e il sottoscritto.
Non mi soffermo sulla mia prima infanzia  perché ricordo poche cose. A sei anni, nel lontano 1913 frequentai la prima classe elementare nei locali dell’attuale “Seminario” in piazza Municipio. A scuola mi accompagnava mio padre. Ricordo che una mattina per motivi di lavoro, mio padre, dopo mille raccomandazioni, mi lasciò andare a scuola. Io, ragazzo vivace e baldanzoso, mi sentiti  quella mattina padrone di me stesso, mi sentii, per meglio dire, uomo senza barba, con tutta la libertà. Il mio primo maestro si chiamava Tumbiolo e con lui ho fatto anche la seconda classe; la tera, invece, l’ho fatta con il maestro avv. Genna, ma non l’ho completata ( non ricordo per quale motivo), l’ho ripetuta con il sacerdote Michele Severino. Ricordo molto bene che i miei quadernetti, oltre che di aste, vocali e numeri, erano ripieni di pupazzetti disegnati   da me. Alla terza classe, avvicinandosi il Natale, ero tutto preso del fare pupazzi (così li chiamavo) che in verità erano pastorelli  di creta asciugati al sole e poi pitturati (servivano per il presepe). Nel laboratorio di mio padre nacquero subito dopo le prime sculture in legno. Intanto continuo lo studio nella quarta classe con il prof. Franco Caracci nella scuola di santa Caterina ( bellissimo monastero di stile normanno). Proprio nella quarta elementare si manifestò in me un grande amore per il disegno. Disegnavo tutto il giorno. Non voglio fermarmi a scrivere altri particolari e avvenimenti di quel periodo, ma questo voglio inserirlo, perché oggi è di moda la pittura murale (murales).



"Gelsomini",1976,olio, cm. 60x80

Tutti i giorni, all’uscita dalla scuola, mi divertivo a disegnare con il carbone sui muri bianchi delle case, che incontravo nel rientrare a casa, ritratti di personaggi caratteristici che circolavano  tutti i giorni per le vie della città, qualcuno anche  handicappato: Vitinu lu babbu, Cicoria bu-bu, Dovicu … ed altri. Questi personaggi li designavo a grandezza naturale e tutti interi, con le caratteristiche somatiche più evidenti. Per la perfetta somiglianza e per la bella grafia ricevevo dai passanti elogi ed applausi. Queste mie monellerie grafiche restavano sui muri finchè i proprietari delle case non le cancellavano con una spugna e acqua perché i disegni erano eseguiti col carbone. Smisi di fare  questo quando il personaggio ritratto sui muri in Piazza Municipio, chiamato “Dovicu”, andò a denunciarmi. A casa venivo guidato da mio padre che, oltre ad essere un bravo ebanista era anche un valoroso intagliatore di ornamentazione applicata al mobilio nei vari stili.
Non eccellevo nello studio, ma davo prova di una forte memoria; imparavo  con la massima facilità poesie, riassunti di storia e di geografia, regole di grammatica e di matematica. Il disegno era quello che palesava la mia spiccata attitudine. Promosso alla Quinta, la frequentai con il maestro Antonio Safina, con esito positivo. Eravamo dodici ragazzi, tutti promossi con il voto “sufficiente” (sei in tutte le materie, anche in disegno …). Ribellatomi per questa grande ingiustizia, il maestro mi rispose: “metà eravate bravi, metà asini, ho fatto la media e vi ho promosso tutti con la sufficienza”. Conseguita la licenza elementare, ritiro solenne dalla scuola perché mio padre mirava a trattenermi nel suo laboratorio, essendo io bravo in tutti i lavori.
Dopo digiuni e lotte con i miei, mi fu permesso di iscrivermi (con dieci giorni di ritardo) alla Scuola Tecnica Statale. Incominciava per me la vera vita di apprendista perché nelle ore pomeridiane mio padre mi sistemò presso uno scultore in legno, il prof. Enzo genovese di Trapani, che teneva la bottega in via Bagno e lì diventai un piccolo maestro di intaglio, tanto che a me venivano affidati    i lavori più delicati. In alternativa col doposcuola di scultura mio padre mi mandò a lezioni di disegno presso il pittore Giuseppe Boscarino, suo amico. Andavo quasi tutti i pomeriggi  dalle 14 alle 19. Fotografia, stampe, ritocchi. Spesso lo seguivo nei lavori di decorazioni geometriche e ornamentali  con la pittura a tempera o a calce e mi esercitavo nel disegno ornato copiando le tavole di ornamentazione sugli stili di Romolo Trevisani. Di conseguenza diventavo più bravo nell’intaglio ornato. La sera fino a notte inoltrata mi dedicavo allo studio scolastico. Intanto sognavo il Liceo Artistico, meta irraggiungibile per me, perché nella mia casa albergava ad intervalli la carestia. Mio padre, socialista,  praticamente attivista, amava la classe operaia e sosteneva che ai ragazzi bisognava insegnare ad amare il lavoro se si volevano  dei giovani onesti. Con questi principi , dopo la scuola tecnica, mi mise a lavorare nel suo laboratorio assieme a sei operai e a qualche garzone. Io appresi bene il mestiere di ebanista, anzi fin dai primi lavori  mi rivelai un operaio perfetto nell’esecuzione; alternavo il lavoro di ebanista a quello di intagliatore. Eseguivo lavori di intaglio  per tutti gli ebanisti della provincia. Modellavo bene   l’ornamentazione in tutti gli stili, dallo stile Luigi XIV –XV –XVI  al Rinascimento  e allo stile Impero che mi era particolarmente gradito. Mi piace ricordare che all’età di 13 anni, scolpii un piccolo “Cristo alla colonna”, alto cm 40, che mio padre mise esposto nella vetrina “Libreria – Moda” di Giuseppe Ajello, in piazza Municipio. Fu un vero pellegrinaggio di pubblico che mi riteneva un ragazzo prodigio. Elogi e ammirazioni per questo piccolo monello che ai giochi della strada    sapeva mescolare qualcosa di serio ( scultura). Erto molto piccolo quando modellavo con la creta i pastori per il presepe.
Ma il lavoro d’impegno l’ho fatto all’età di anni 16: scolpii direttamente su un pezzo di tronco di cipresso un “San Francesco”, il poverello d’Assisi, perché il professore ci fece imparare il “cantico delle creature”. Il “San Francesco” mi sembrava ancora più mistico per l’umiltà e la duttilità che emanava il legno. Molti particolari sono presi dal vero: le mani sono quelli di mio padre che si prestava volentieri a metterle in posa.

Nel 1926 partiti volontario per la Regia marina. Questa mia decisione fu motivata da un manifesto affisso nella vie di Mazara: “Arruolati   in Marina – Girerai il mondo”. Finalmente: era stato sempre il mio sogno, ma venni assegnato a Taranto e poi a Boffoluto nella polveriera come camionista artificiere, per cui, sfumato il mio sogno, durante il servizio militare mi impongo un intenso studio nelle ore libere e svolgo tutto il programma del Liceo artistico. Legato a quel periodo ricordo un episodio: il capitano Seghesi aveva l’abitudine, la notte, con la sua cavalla, a trotto, di non dare mai la parola d’ordine al mio “Altolà, chi va là?” e allora una volta gli sparai un colpo intimidatorio e finii in prigione; lì approfondii i miei studi artistici. Congedatomi dalla Regia marina all’età di anni 21, volli fermarmi in alcune città: Taranto, La Spezia, Firenze.  A Firenze per la prima volta assaggiai il marmo presso il laboratorio dello scultore Calascibetta (grande scultore di monumenti funerari) e da quel giorno, nella scena della mia vita  entra la scultura in marmo (nel cimitero di Mazara esistono parecchie lapidi scolpite da me). La sete di conoscere e di sapere mi spinge ad assaggiare anche l’acqua della laguna di Venezia. Là mi incontro per la prima volta  con le sculture del Sansevieri, con l’Adamo ed Eva dello scultore Rizzo  e con tutta l’arte che Venezia racchiude nel suo scrigno d’oro.  Visito Roma, i Musei vaticani e poi ritorno nel “salvadenaio” mazarese. Riprendo lo studio e il lavoro di scultura in marmo e in legno. Nascono le prime idee di ingrandire il laboratorio di mobili di mio padre: mobili in stile. Sentiti allora il bisogno di studiare tutto quello che riguardava i mobili dei secoli passati. Non potendo lasciare Mazara per impegni di lavoro, pensai di iscrivermi all’Istituto “Scuole riunite” per corrispondenza di Roma, al “Corso Capotecnico ebanista mobiliare”. Dopo tre anni di studio nel 1929 conseguii il diploma; con esso feci la prima esperienza nel laboratorio di mobili antichi della ditta Cav. Onofrio Favara a Palermo, che         primeggiava in campo nazionale. Del valore di questa fabbrica parla il manuale “Hoepli di A. Milani “Mobili e stili”. In questo periodo il lavoro è intenso, non si trova tempo per soddisfare le richieste di mobili che esportavamo  anche a Palermo.  Intanto il tempo scorre veloce come le acque che vanno al mulino. Si arriva al 1936 quando scoppia la guerra per la conquista abissina. Sono richiamato alle armi presso il Comando Marina di Trapani, avanguardie delle coste tunisine.  A Trapani lavoro ancora il marmo presso i fratelli Bruno, per guadagnare qualche soldino.  Vita dura! Spesso no n dormivo in caserma, ma nella piccola casa presa in affitto, che mi serviva da studio nei giorni e nelle notti libere dal servizio. Avviato in congedo nel 1937, finita la guerra, ritornai in famiglia. La crisi era già in atto, nel nostro laboratorio si tirava avanti    facendo lavorare gli operai due giorni la settimana. Io, chiuso nel laboratorio che funzionava da studio, facevo scultura in marmo, qualche ritratto in creta, tenendo sul cavalletto un dipinto da finire. Fu proprio in questo  periodo che maturai la decisione di completare gli studi  e conseguire la maturità artistica presso l’Accademia di belle Arti di Palermo. Questo sogno non dava serenità al mio spirito di artista. Il bisogno di guadagno mi impediva di abbandonare il lavoro e così applicai su di me il famoso  motto di San Paolo: “Studio e lavoro”.  



"Melagrane",1960, olio, cm.45x60

   Durante il giorno alternavo il lavoro di scultura in marmo e di intaglio  per il mobilio a quello di dirigere il laboratorio  mentre dalle 18 alle 24 studiavo. Prendevo lezioni dal prof. Gaspare Morello  per il gruppo letterario mentre per il gruppo scientifico ero io stesso a svolgere il programma. Per la parte artistica mi trovavo già ben preparato e così nel 1938-39, sospendendo il lavoro nel laboratorio, mi reco a Palermo per completare il programma guidato da bravissimi professori. Ignazio D’Aiello, titolare di lettere al Liceo “Garibaldi”, il prof. Cipolla per il gruppo scientifico ed altri. Per la parte architettonica l’architetto Giovanni Rutelli, figlio del celebre scultore Mario Rutelli (autore della fontana dell’esedra di Roma). Per la scultura frequentavo ogni giorno lo studio dello scultore Archimede Campini (spesso posavo per lui), allora titolare di scultura all'Accademia e Direttore  della stessa. Tutte le sere andavo a trovarlo alla birreria  Bellini col poeta Franco Caracci e si parlava d’arte e poesia. Queste conversazioni a cui intervenivo spesso, mi furono di grande aiuto per la prima formazione artistica. La sera, all'Accademia frequentavo i corsi della “Scuola libera del nudo”. Conseguii il diploma nel 1939 con risultati ottimi in tutte le prove e frequentavo il biennio di architettura per volere dello scultore Campini che mi aveva in grande stima.  Con la frequenza nello studio del pittore Guarino si svela in me l’amore per la pittura. E nacque così Enzo Santostefano pittore, contro il parere dello scultore Campini che vedeva in me principalmente lo scultore. Dopo il diploma, me ne ritornai a Mazara e continuai il mio solito lavoro: dirigere il laboratorio di mio padre, fare della scultura in legno o in marmo e la sera disegnare, sempre disegnare. Durante la guerra dal 1943 al 1945 il mio studio veniva frequentato da artisti in armi: lo scultore Mario Montemurro, lo scultore Giovanni Rosone, lo scultore Monteleone, lo scultore Venditti, il pittore Ranucci e Andrea Cascella.
"Anfora con aragosta",1974,olio, cm. 50x60
 
Finita la guerra, frequento spesso l’Accademia di Belle arti di Palermo, dove conosco il pittore Pippo Rizzo, ospitato nello studio di Rosone e Dixit. Nel 1946 visitai a Bologna lo studio di Giorgio Morandi. Nel piccolo salotto di casa sua ho visto la piccolissima incisione del Maestro Rembrandt, tanto cara al pittore bolognese ( donna nera coricata). Come in tutti i dopoguerra continuava la crisi di lavoro e quindi la vita in famiglia era un po’ stentata. Avendo io lo studio in via Roma, ricevevo spesso il Preside del Liceo classico, prof. Quattrocchi, il quale entusiasta dei miei lavori di scultura e pittura, un giorno mi consigliò di darmi all'insegnamento d’arte nel ginnasio di Mazara da lui diretto. Siamo  nel 1940/41, primo anno di insegnamento nella prima delle tre classi del ginnasio che poi con la riforma furono chiamate “scuola media”. Come insegnante mi trovai bene. Lo stesso Preside elogiava le mie lezioni e la sua stima per me aumentò. La prima mensilità di stipendio portò nella mia famiglia una ventata di benessere. Ricordo che  mentre io a scuola guadagnavo 40 lire al giorno, un ottimo operaio nel laboratorio di mio padre veniva pagato a lire 6 al giorno. E’ chiaro che con una mia giornata lavorativa pagavo quasi sette giornate di operai. Così la crisi dei pagamenti fu quasi risolta. La scuola mi impegnava solo per la prima mezza giornata, il pomeriggio ero tutto per il mio solito lavoro. Tornavo più volentieri al mio cavalletto e perfezionavo continuamente la mia pennellata, il tono della composizione e anche la costruzione grafica. Nei periodi di vacanze scolastiche correvo nelle città d’Italia, dando la preferenza ai luoghi dove l’arte del passato è più abbondante e visitabile: Venezia, Firenze, Roma etc.  
Fu proprio a Roma nel 1945 che feci visita al Direttore dell’Accademia   di Belle Arti, Pippo Rizzo. Io, nonostante i miei 38 anni, mi presentavo molto più giovane, vestivo alla moda    e con uno spirito adatto a frequentare la cosiddetta la società “bene” ( la vedova Marinetti e famiglia). Con il desiderio prepotente  di uscire dal mio ambiente nativo di artigianato, mi legai fortemente d’amicizia al pittore Pippo Rizzo, pittore al servizio dell’arte. Fu allora che nel suo studio di Roma, comprai una sua opera  “Fiori in toni caldi” per lire 5.000, per quei tempi cifra alta.   Le lunghe conversazioni nel suo studio e la fiducia che lui aveva per me, fecero s’ che un giorno mi propose di allestire una collettiva d’arte a Mazara insieme con gli amici pittori Dixit e Rosone. Presi l’impegno e ritornando a Mazara, dato che insegnavo nel seminario Vescovile, mi fu facile ottenere i locali.  E nacque la prima collettiva di vari artisti nella mia città: era il 1946. In seguito  organizzammo la collettiva del 47 e del 48 con grande successo di critica e di vendita. I miei esordi nell’arte risalgono agli anni precedenti la guerra ma la mia prima importante affermazione è l’invito alla Quadriennale Romana del 1948, nel 1950   con mia grande soddisfazione espongo alla XXV Biennale di Venezia.  Dal 1950 ad oggi è stato un continuo cammino nel mondo dell’arte costellato di riconoscimenti e premi vari. Per costruire la mia carriera mi sono sottoposto a sacrifici durissimi e ad una ferrea disciplina. L’esperienza di tanti mestieri svolti con amore e serietà mi portò a creare una “scuola d’Arte e mestieri” riconosciuta dal Comune e frequentata da un buon numero di artigiani mazaresi e che io diressi dal 1946 al 1955, purtroppo dovetti abbandonare proprio quando   si avviava ad essere riconosciuta dalla regione. Il motivo è chiaro: all'orizzonte si profilavano i  pretendenti! Negli anni maturi ho incontrato la mia compagna che ha confortato e retto il mio dire artistico; una compagna che mi ha sostenuto ed incoraggiato, dipingendo anche lei, mostrando talento e vera capacità artistica. Adesso lascio a voi, miei cari posteri, il piacere di riscoprirmi. Di Enzo Santostefano possiamo chiaramente dire di essere entrato nelle pagine del libro della storia mazarese.


Immagini relative alla Cerimonia tenuta sabato 28 aprile 2018,  presso la Lega Navale di Mazara del Vallo, dove è avvenuta la  presentazione al pubblico del busto di bronzo realizzato dall’artista scomparso Enzo Santostefano che raffigura monsignor Giovan Battista Quinci. L’opera e stata collocata all'interno dell’Archivio Diocesano(al quale la figlia di Santostefano l’ha donata) su un piedistallo di ferro e marmo donato dalla Lega Navale e su progetto dell’architetto Mario Tumbiolo. La consegna del busto in bronzo e avvenuta proprio nel 140°anniversario della nascita del grande storico della Chiesa mazarese Giovanni Battista Quinci, nato nel 1877 e morto nel 1956. 
                                                                                                                                                                                                                
                                                                               




Testimonianze:

Giornale di Sicilia  del 6 agosto 1941     di Leonardo Bonanno
La tavolozza del Santostefano non è parca di colori, non scarseggia di toni e se talvolta il dettaglio ha bisogno di maggiore finitezza, pure l’ideale di questo artista di creare un suo motivo  ed una sua vita in ogni sua aspirazione ci ha lasciato nella sicura certezza che la buona via è stata tracciata e sarà percorsa fino in fondo col crescendo sperato dei successi.

Ausonia . Siena 1948         



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