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martedì 21 aprile 2020

A cinquecento anni dalla morte di Raffaello, il grande pittore di Urbino



Raffaello Sanzio

Piccola Madonna Cowper del 1506-1508, conservata nella National Gallery of Art  di Washigton

  Non poteva passare inosservata una data tanto significativa: i cinquecento anni dalla morte del grande Urbinate: Raffaello Sanzio, il pittore che ha saputo sintetizzare in modo ammirevole gli ideali propri del rinascimento italiano, dove ragione e fede non si oppongono; l’artista geniale  della grazia le cui dolcissime madonne hanno sempre riscosso ammirazione e commozione, oltre che un enorme successo di pubblico: basta pensare alla Madonna del cardellino o alla Madonna del prato. Raffaello Sanzio, figlio di Giovanni Sante (latinizzato Sanzio) nasce a Urbino nel 1483, un venerdì santo; muore giovanissimo nel 1520, un altro venerdì santo.  Inizia la sua carriera artistica come apprendista nella “bottega” del padre, da dove presto si trasferisce a Firenze alla scuola del Perugino. A soli 21 anni realizza Lo Sposalizio della Vergine, il quadro sul quale appone la firma e la data “Raffaello Urbinas MDIIII”. 
Sposalizio della Vergine nella versione del Perugino, del 1504
conservato nel Musée des Beaux-Arts a Caen (Francia)

Nei quattro anni trascorsi a Firenze costruisce la sua fama, grazie a numerose opere commissionate dalle facoltose e nobili famiglie fiorentine. Nel 1508, convocato da Bramante, concittadino e amico di famiglia, si trasferisce a Roma, dove già il nome di Raffaello era ormai noto al Pontefice, per affrescare gli appartamenti del Vaticano. Il ciclo pittorico che concepisce per l’occasione è dedicato alla Filosofia, Teologia, Poesia e Diritto. Nascono così tutte le altre opere tra le quali: la Scuola di Atene (filosofia) e la Disputa del Sacramento (Teologia). Morto il Bramante, nel 1514, Raffaello dal nuovo Pontefice è chiamato a prenderne il posto come Architetto della Fabbrica di San Pietro. Il nuovo Pontefice, Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, apprezza dell’artista non solo il talento ma anche la sua modestia e bontà, la sua natura gentile e delicata nel rapportarsi e quella affabilità che lo differenzia dal carattere passionale di Michelangelo Buonarroti.  Dalla sua “bottega”   a Roma, dove era sempre circondato da aiutanti, assistenti,  allievi che collaboravano con lui,  nell’assiduo lavoro che gli veniva commissionato da tutte le parti d’Italia e fuori, venne fuori il cosiddetto “Spasimo di Sicilia”, un’opera artistica di valore inestimabile, un dipinto su tavola ( 3.18x2.29 ), commissionato da Giacomo Basiricò, famoso giuriconsulto palermitano, al grande Raffaello Sanzio, nel 1517: dipinto ad olio su tavola, trasportato poi su tela, dal tema: “Il viaggio di Gesù al calvario”; ritorna così il tema del Venerdì santo. A Palermo il dipinto prese il nome “Lo Spasimo di Sicilia” perché destinato dal committente al locale monastero olivetano di Santa Maria dello Spasimo; per la stessa chiesa monastica contemporaneamente Antonello Gagini collocava un monumentale altare. L’opera è firmata su una pietra in primo piano:”Raphael Urbinas”. Fu questa una delle ultime opere perché, morto Raffaello all’età di appena anni 37, la bottega nel 1527 fu messa a ferro e fuoco dai Lanzichenecchi di Carlo V, che irruppero a Roma mentre il Papa Clemente VII dei Medici si rinchiuse dentro Castel Sant’Angelo. Il “sacco di Roma” si protrasse per circa quindici giorni: Spagnoli e Napolitani si segnalarono per la loro crudeltà e sadismo, i Lanzichenecchi per le loro parodie sacrileghe  e tutti si mostrarono di una rapacità quale non avevano dimostrato gli antichi barbari. La “bottega” di Raffaello andò distrutta e i suoi allievi  si salvarono solo con la fuga.




Ritratto di Agnolo Doni, dipinto del 1506 circa, conservato nella Galleria Palatina a Firenze

Lo “Spasimo di Sicilia”  di Raffaello: tra storia e leggenda


 Di questa opera veramente insigne a Mazara esistono ancora oggi due copie: una di esse era collocata sell’altare maggiore della monumentale chiesa monastica di santa Veneranda, vero gioiello di architettura all’interno della quale si ammirava anche la statua marmorea di Santa Veneranda di Vincenzo Gagini. Oggi questa copia, restaurata, è custodita nel palazzo vescovile della diocesi. L’altra copia si può ammirare nella ex- chiesa dei Cappuccini,  oggi Parrocchia Cristo re. Queste due copie non portano il nome dell’autore né la data,  ma per analogia ad una terza copia, custodita a Castelvetrano nella Chiesa san Domenico, realizzata nello stesso tempo dal cremonese Giovanni Paolo Fondulli  per la cappella di casa Aragonese, tutte e tre sono opera dello stesso autore: il manierista cremonese, conosciuto per quella sua particolare  interpretazione lombarda del manierismo raffaellesco ( il Fondulli, a dire del Di Marzo, fu prima alla scuola dei Campi di Cremona, poi a Palermo, allievo di Vincenzo Anemolo, a sua volta discepolo di Polidoro a Roma. Cfr. Di Marzo, Delle belle arti in Sicilia, pp.284-287).



Lo spasimo di Sicilia copia dell'opera raffaellesca attribuita a  Giovanni Paolo Fondulli  conservata nel Palazzo Vescovile di Mazara del Vallo

Il dipinto, oggi conservato nel palazzo vescovile di Mazara, olio su tela, arricchito da una cornice dorata, è costituito da due parti: un riquadro centrale (cm280x340) e n.15 riquadri all’intorno, entro cornicette lignee dorate applicate su tela. Non si può parlare certamente di valore artistico di queste tre copie, come neppure delle altre che si trovano in Sicilia, perché ogni opera d’arte ha la sua formale bellezza che rispecchia l’autore; le copie, o chi imita e copia rinuncia alla forma e all’ispirazione personale e si sforza di fotografare, di cogliere il più adeguatamente possibile il pathos ispiratore dell’artista; si parla perciò di maggiore o minore perfezione tecnica nella riproduzione del modello. Le molteplice copie del grande Urbinate stanno a dimostrare luminosamente la meritata fortuna in Sicilia dello “Spasimo “ e la conferma del valore intrinseco dell’opera raffaellesca. Gli studiosi hanno fatto a gara per mettere in risalto le varie copie disseminate nell'Isola, anche se parecchi di essi nel passato avevano ignorato o trascurato le due esistenti a Mazara. Il Di Marzo in una mostra artistica ebbe a segnalare una copia esistente a Sciacca nella chiesa dell’ex monastero del Fazello, e un’altra venerata nella chiesa palermitana del Carmine, ora custodita nella Pinacoteca del Museo Nazionale di Palermo. L’una e l’altra eseguite attorno al 1537 da Antonello Crescenzio, conosciuto come Antonello il Panormita. Lo stesso Di Marzio si è occupato della copia elaborata dal siciliano Jacopo Vigneri, nel 1541, per la chiesa di san Francesco in Catania. Una riproduzione dello “Spasimo di Sicilia”, di ignoto autore è collocata in una delle eleganti sale della Chiesa delle dame in Palermo, questa però è da attribuirsi al secolo XVII perché vi domina un esagerato cupo. Un’altra ancora, in proporzioni ridotte, è conservata nell’Oratorio di Sant’Eustachio in Palermo. Il prof. Sebastiano Vento si era posta a suo tempo una domanda: dove e quale è  l’originale lavoro del grande Raffaello?  La risposta oggi non è facile a darsi : essa certamente fu commessa al grande Pittore dai frati olivetani di Santa Maria dello Spasimo di Palermo. Giorgio Vasari narra che la nave, che portava la cassa contenente la tavola raffaellesca, diretta per Palermo, appena uscita dal porto fu raggiunta da una terribile tempesta che la fece urtare contro uno scoglio. Tutto andò perduto ad eccezione della tavola dipinta che fu trascinata  dal mare nei pressi di Genova, dove, ripescata e tirata a terra, fu veduta essere qualcosa di divino e per questo fu messa in custodia, essendosi mantenuta illesa sia dalla furia del mare che dai  venti. Il prezioso quadro venne in possesso dei religiosi dopo non poche difficoltà perché questi per riaverla furono costretti a ricorrere all'autorità del senato e a quella del Pontefice. La Sicilia forse purtroppo doveva rimanere priva di una opera artistica di così singolare importanza. Nel 1661 infatti venne in potere di Filippo IV di Spagna  il quale per averla assegnò al Priore del convento, corrotto dal viceré, il conte D’Avila, in compenso  una rendita di cinquanta scudi. Il turpe mercato fu compiuto all'insaputa dei frati che dall'antica sede si erano dovuti  trasferire sin dal 1573 al monastero di Santo Spirito. Accortesi i frati che il dipinto era scomparso a causa del  Priore e che era stato sostituito con una brutta copia dello stesso, cacciarono via il Priore e pregarono il re di restituire il pregiato quadro originale. Il re mise a tacere i frati promettendo loro una rendita di quattromila scudi. Il re Filippo IV in realtà, come del resto anche il nonno Filippo II, furono grandi mecenati e seppero accumulare una quantità enorme di opere d’arti, che rivelano il gusto e la cultura dell’uno e dell’altro. Se Filippo II comprò dipinti di Tiziano, Veronese, Tintoretto e di El Greco, Filippo IV ebbe la passione per la pittura e volle realizzare alla corte di Spagna una Galleria d’Arte aperta al pubblico. Come afferma il pittore aragonese Jusepe Martinez, certo per averlo ascoltato da Velazquez, che a questi Filippo IV aveva espresso il desiderio “che intendeva fare una Galleria di pitture e che, per questo andasse egli in cerca dei migliori pittori e scegliesse le più belle opere… “. Alla quale richiesta il Velasquez avrebbe risposto: “Io ardirei, Signore,  andare a Roma e a Venezia a cercare e a contattare le più belle pitture che vi si trovano” . Oggi al Museo Madrilena sono custoditi: 8 dipinti di Raffaello, 36 di Tiziano, 12 del Veronese, 25 del Tintoretto. Nell'ultimo dopoguerra le monache benedettine di Caltanissetta riaprirono l’annosa discussione regalando al Vescovo, per esporlo nei locali nisseni della Diocesi, uno “Spasimo di Sicilia” affermando che, da tre secoli lo tenevano ben nascosto per paura che venisse confiscato dalle autorità, e questo sarebbe il vero dipinto di Raffaello mentre quello madrilena solo una bella copia.

Lo Spasimo di Sicilia” di Raffaello Sanzio

Lo Spasimo di Sicilia” è una delle più belle realizzazioni artistiche, che abbia saputo creare la fantasia e l’estro di Raffaello. E’ un quadro, scrisse Sebasiano Vento nel quotidiano “L’ora” (15 novembre 1928), meravigliosamente complesso e rappresenta una delle scene più commoventi e significative del dramma divino della passione del Nazareno. L’autore coglie con sorprendente sintesi il tragico momento in cui Gesù, che occupa un posto centrale della situazione, grondante di lacrime e di sangue, cade sfinito sotto il peso della croce, che viene sorretta dal biblico Cireneo, mentre la Vergine madre e le pie donne, struggendosi di dolore, tendono le braccia verso la vittima innocente della ferocia dei crocifissori. E’ il momento solenne in cui Gesù risponde alle stesse pietose donne: “Non piangete per me ma per voi e per i vostri figli”. All'azione drammatica prendono parte figure numerose e varie per atteggiamenti e per espressioni: dal Nazareno alle donne piangenti, dal sacerdote israelita al rappresentante del governo romano, dal Cireneo ai flagellatori; da colui che tira Gesù con la corda all'uomo crudele  che minaccia brutalmente con l’asta Gesù e, infine,  da tutti coloro che armati, o a piedi, o a cavallo vengono fuori dalle mura di Gerusalemme, all'impassibile vessillifero, che a cavallo è intento solamente ad arrestare la marcia verso il calvario, che si intravede da lungi. Il tutto armonizza con l’ispirazione fondamentale: dove ogni elemento è una delle diverse determinazioni coerenti e necessarie all'unità estetica della rappresentazione. Tutto è vita e movimento. Nello Spasimo Raffaello tentò veramente il drammatico. Il Giordani riflettendo pensa che forse Raffaello nella Giudea, soggetta all'impero romano, abbia intravisto l’allegoria dell’Italia non libera ed evidenzia perciò  il contrasto tra la forza brutale dei Giudei, effigiati con spiccata mosculatura nelle braccia e nelle gambe, con la serenità cosciente di Cristo nel cui volto traspare il senso del dolore fisico unito a grande mansuetudine. Il Cristo soffre per la verità e subisce una grandissima ingiustizia; non si sdegna ma sente mestizia e pietà della miseria dei suoi persecutori. Nell’Artista, anima eminentemente religiosa, era certamente chiara, evidenzia il prof. Sebastiano Vento,  la volontà di esprimere la doppia natura umana e divina del Cristo  nel momento in cui il Redentore sacrificava la sua vita per la salute anche degli stessi suoi persecutori. L’unione ipostatica è verità fondamentale nel cristianesimo ortodosso. Il sereno misticismo del grande Urbinate si coglie nell’espressione mirabile del volto di Cristo, che è il protagonista delle tragedia del Calvario, e si accorda mirabilmente con la coscienza estetica proprio del Rinascimento che dà uno sbocco mirabile all’arte del grande genio italiano Raffello Sanzio.
                                                                                   Sac. prof. Pietro Pisciotta


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