Nel dicembre del 1883
il poeta Giosuè Carducci, grande autore della letteratura internazionale dell’Ottocento,
edita “San Martino” (in maremma pisana)
nel supplemento di Natale dell’ Illustrazione
Italiana, successivamente inserita nella raccolta di poesie “Rime Nuove”. Di queste poesie la più conosciuta rimane
indubbiamente “S. Martino”, la cui notorietà attraverserà tutto il Novecento e
addirittura sul finire di quel secolo viene proposta come canzone e quindi
musicata.
Il tempo in cui le rime furono ideate (fine Ottocento), l’avvento
del giorno dedicato a San Martino segnava ancora la fine dell’anno agricolo trascorso e l’inizio del successivo, una sorta di
capodanno che apriva quel sistema di religiosità agraria che si esprimeva
attraverso una serie di ricorrenze legate all’alternanza delle stagioni e il
succedersi dei lavori nella campagna. Il Novecento, e in particolare la seconda
metà d’esso che ha visto la modernizzazione delle nostre campagne avviata dal
progresso industriale, ha avuto tra le sue conseguenze l’appiattimento o
addirittura l’estinzione delle tradizioni locali. In un certo senso nel melanconico
canto del Carducci “che dipinge con i versi all’ora del vespero” potremmo leggere una “premonizione”
che accomuna il crepuscolo del paesaggio al tramonto di un calendario
antico, culturalmente religioso, e gli esuli
pensieri alla perdita dei valori delle tradizioni religiosamente culturali,
che si allontaneranno da lì a breve con la modernizzazione della campagna e per
le mutate condizioni socio-economiche e culturali.
Circa un quarantennio fa, le vie e venule che attraversano i
rioni storici di Mazara, subito dopo la “Festa di li morti“, durante la
settimana che precedeva l’11 novembre erano “aromatizzate” olfattivamente da un
odore forte, pungente, dolciastro: era il profumo particolare dato dalle esalazioni
della cottura (tricotti) di biscotti secchi aromatizzati con semi di finocchio
o di anice, denominati viscotta o panuzzi di San
Martinu. La via che
più delle altre godeva di questa fragranza odorosa, che ritmicamente anno dopo anno
contraddistingueva il tardo autunno e l’attardarsi dell’estate che si
concludeva nella cosiddetta estate di San Martino, era la “Strata di la
Mastranza” ossia la via Garibaldi. Questa via, che a quel tempo era un rilevante asse commerciale della città, era
denominata dai cronisti dei quotidiani “la piccola Carnaby Street della
provincia” per la quantità e varietà di negozi di moda, di musica, pasticcerie,
bar, sartorie, botteghe orafe, alimentari, barbieri, tabacchi e così via; ma il
laboratorio che più di tutte le altre attività dominava questa sorta di bazar
persiano era il forno del mastro fornaio Martino D’Annibale. In questo forno si
panificavano pani speciali, distinguibili nella fragranza sia aromatica che
palatale. Chi ha avuto la fortuna di vivere il luogo in quel periodo sa di cosa
sto parlando. Si riusciva a percepire il passaggio delle stagioni con il
“naso”: mentre l’approssimarsi dell’estate odorava di brioches, l’arrivo dell’inverno
profumava di cassateddri, il cui
ripieno, la conserva di fichi, era
aromatizzato con le scorze di mandarini e foglie di alloro, miscela
questa la cui fragranza veniva esaltata
dalla cottura al forno e dal magistero
del mastro fornaio. Ma il mago
Martino raggiungeva l’apice della sua bravura nella preparazione di li panuzzi di San Martinu, il cui
pregnante piacevole odore si diffondeva nell’area facendoci recepire la
dolcezza dell’autunno, forse perché inconsciamente voleva ipercelebrare l’omonimo santo. Durante questo periodo, che
coincideva con la svinatura, i vecchi ci ricordavano antichi proverbi agricoli come: “a
San Martinu ogni mustu bonu addiventa vinu”- “a San
Martinu si tasta lu vinu”-“A San Martinu s'ammazza lu porcu e si sazza lu
vinu". Già nel tempo di cui parlo la festività di San Martino aveva un
eco lontano, frammenti di antichi riti agricoli arrivavano a noi assottigliati,
il cui ricordo era mantenuto in pochi detti e nella tangibilità di un piccolo
pane. Oggi, di
conseguenza, qualsiasi azione di ripresa delle antiche feste darebbe vita a dei
falsi riti, per lo più stravolti nella loro essenza originaria. La loro storia
è, comunque, narrabile ed è con questo intento, al fine di portare alla
conoscenza di tutti ed in particolare dei giovani l’esule memoria delle antiche tradizioni del luogo, che l’Accademia
Selinuntina di Scienze, Lettere ed Arti di Mazara del Vallo, nella sua azione
di promozione della storia del territorio, di concerto con l’Azienda
vitivinicola GazzeRosse, l’antica tenuta del Cav. R. Mandina ed Antonino Cicero Editore ha
promosso l’11 novembre 2016 “la Sagra del vino Novello nell’Estate di
S.Martino”, evento composito, costituito da un breve recital di poesie
(G.Carducci- Ibn Hamdìs) che ha accompagnato la comunicazione su “Le antiche strade
del vino del XVI sec, nel territorio mazarese”, seguite da un brindisi
vernacolare in omaggio ai nostri contadini, con degustazione del nuovo vino e di
“li panuzzi di S. Martinu”, quindi visita agli antichi laboratori di trasformazione dell’antica
tenuta.
L’iniziativa è nata
dalla sentita necessità di attivare una sorta di riappropriazione di
un’identità legata al contesto territoriale che si va affievolendo giorno dopo
giorno. Il contesto territoriale dove
sorge Mazara del Vallo presenta quelle caratteristiche fisiche che configurano il cosiddetto “giardino del
Mediterraneo”, espressione di un territorio geomorfologicamente articolato e
vario. In questo luogo sono presenti due torrenti, due tipi di litorale, uno
roccioso l’altro sabbioso, un’area lacustre, il surrogato di una grande
maremma, estese aree rocciose dette sciare
frammiste a fertili terre. Il fatto di essere posta tra il mare e la terra, ha
fatto sì che Mazara nel corso della sua storia abbia vissuto di una duplice
economia, una di mare e l’altra di terra, con alterne vicende in cui un sistema
produttivo sopperiva alla carenza dell’altro.
Nell’economie di terra rilevante è stata
quella cerealicola che faceva del porto della città uno dei caricatori più importanti
della costa sud-occidentale dell’isola. A questa produzione si abbinava quella
vitivinicola cospicua già al tempo dei Normanni, che in territorio di Mazara avevano
sottoposto a tributi regi, con la gabella vinae
Iudeorum, gli estesi feudi di Judeo sottano e Judeo soprano, possedimenti
terrieri di giudei mazaresi dove si coltivava la vite. Nelle antiche carte
dell’archivio storico amministrativo della città sovente si incontrano
documenti inerenti il vino come ad esempio la concessione fatta dal conte
Bernardo Giovanni Cabrera, signore di Mazara che confermava nel 1436 i capitoli della città abolendo anche la
gabella sulla minuta vendita del vino:”… che si pozza vendere et accattare vino ad quartara franco di gabella
et de ogni altro diricto” (la quartara
era un’ antica misura di capacità per liquidi rispondente a circa litri 17). Altri capitoli degli anni che seguono
si occupano di stabilire la paga dei
lavoratori “in lo tempo de lo conciare et zappare le vigne“ oltre che di mettere in sicurezza i lavoratori delle vigne
prima della vendemmia imponendo la rimozione delle arnie delle api collocate
tra le viti: “… che tutte quelle persune che tenessero vascelli de api intro e
appresso vigne …. e li hagiano a da levare di tale loco … ”. Altri documenti
cinquecenteschi, invece, che sanciscono le paghe dei trasportatori di mosto, ci
informano quali terre dei feudi fossero piantati a vigneti. Indizi questi utili
per delineare una ricerca sulla storia della coltura della vite nel nostro
territorio.
Mario Tumbiolo
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